mercoledì 5 novembre 2008

L'OSSERVATORE ROMANO Edizione quotidiana 6 novembre 2008

Pio X e la riforma della Rota Romana

L'asse di equilibrio della Chiesa novecentesca






Nel pomeriggio di mercoledì 5 novembre si svolge la solenne inaugurazione del nuovo anno accademico dello Studio Rotale del Tribunale Apostolico della Rota Romana alla presenza del decano, il vescovo Antoni Stankiewicz, dei prelati uditori, degli officiali, degli avvocati e degli studenti. Pubblichiamo quasi integralmente il testo della prolusione.



di Gianpaolo Romanato


Le riforme promosse da Pio X negli undici anni del suo pontificato rappresentano un momento fondamentale nella storia della Chiesa novecentesca. Ma per comprenderne il significato e l'importanza dobbiamo tornare ai drammatici eventi ottocenteschi, che posero definitivamente fine al mondo d'antico regime.

Nell'ancien régime la Chiesa era un'istituzione sovrana, indipendente, con una giurisdizione sua propria, non derivata dall'autorità civile, fornita di strutture e poteri analoghi a quelli dello Stato, poteri che includevano anche, come sappiamo, l'uso della coercizione. Societas perfecta, secondo la ben nota definizione risalente a Roberto Bellarmino, cioè visibile, gerarchica, autonoma, autosufficiente, con vincoli non solo spirituali ma anche giuridici.


Tuttavia, nel corso del Settecento, con l'affermazione dell'assolutismo, pur conservando queste caratteristiche, la Chiesa venne progressivamente imbrigliata e ridotta sotto uno stretto controllo statale, secondo i principi del giurisdizionalismo, i cui criteri sono ben sintetizzati da quest'affermazione di Wenzel Anton von Kaunitz, ministro di Maria Teresa e di Giuseppe ii d'Austria "L'abrogazione di abusi che non toccano i principi della fede o l'intimo della coscienza e dell'anima umana, non può dipendere solo dalla Sede Romana, perché essa non ha altra autorità nello Stato al di fuori di questi due campi".


L'amministrazione ecclesiastica venne demandata perciò quasi interamente al potere civile. Basterà ricordare la soppressione della Compagnia di Gesù, decretata da Clemente XIV nel 1773 solo dopo che la Compagnia era già stata sciolta in quasi tutti i Paesi europei dai rispettivi governi, con incameramento dei suoi beni e incarcerazione o espulsione dei padri.


Alla vigilia degli eventi rivoluzionari il cattolicesimo romano era perciò una realtà totalmente diversa da quella che conosciamo noi oggi:  di fatto, era una federazione di chiese nazionali, regolate dall'autorità politica molto più che dall'autorità pontificia. Da ciò il declino della sede romana nel corso del XVIII secolo.


Dopo gli eventi rivoluzionari, l'affermazione del sistema di governo liberale e della concezione separatista, nel corso del XIX secolo, cambiarono radicalmente i termini del rapporto tra la Chiesa e lo Stato. Al posto dei sovrani cattolici settecenteschi, l'intera organizzazione ecclesiastica (...) si trovò di fronte i moderni stati nazionali, retti da ordinamenti rappresentativi, sostanzialmente indifferenti rispetto al fattore religioso, ristretto al privato, al foro interno, con la conseguenza, per la Chiesa, di trovarsi chiusa dentro le maglie del diritto comune, sottomessa a un'autorità anonima, mutevole, lontana.


Questa trasformazione provocò un analogo cambiamento nell'organizzazione cattolica. In una Chiesa improvvisamente sola, senza protezioni, circondata dallo spettro della rivoluzione, il papato emerse come l'unico sicuro punto di riferimento. L'intera organizzazione ecclesiastica, non potendo più contare sulla protezione del sovrano, che era diventato un'altra cosa, cioè lo stato moderno, tornò a guardare a Roma, si strinse attorno al papato, si rese conto che solo ricompattandosi attorno alla propria struttura gerarchica avrebbe potuto fronteggiare il nuovo che avanzava. Senza più poli alternativi, né interni né esterni, il Pontefice romano si riappropriò così della piena sovranità tanto nell'ambito dottrinale quanto in quello disciplinare. Ne derivò un "monopolio di giurisdizione," come è stato definito, ben diverso dal "primato di giurisdizione "del periodo prerivoluzionario, del tutto inedito nella storia della Chiesa latina.


Ma nel vortice rivoluzionario erano sparite anche le istituzioni scolastiche, particolarmente francesi e austro-tedesche, che erano state il fulcro della cultura giurisdizionalista, dal gallicanesimo al febronianesimo al giuseppinismo. Ad esse si sostituirono le scuole e le università romane, che riorientarono il pensiero cattolico in direzione esattamente opposta, cioè verso Roma e non più contro Roma. La romanizzazione del cattolicesimo non avrebbe potuto essere più rapida e più completa. In pochi decenni la Chiesa romana si trasformò in una solida organizzazione soprannazionale, gerarchicamente sottomessa al papato tanto sul piano disciplinare quanto su quello intellettuale. Roma divenne contemporaneamente, nel corso dell'Ottocento, ciò che non era mai stata nei secoli precedenti:  la fonte del potere, il centro di formazione del personale dirigente, il luogo di elaborazione del pensiero teologico e canonistico. Il suo baricentro si capovolse:  dai sovrani cattolici passò al papato, dalla periferia al centro, da Parigi o Vienna o Monaco si spostò a Roma. Questo moto centripeto trovò consacrazione dottrinale nel 1870 al concilio Vaticano I attraverso la proclamazione dogmatica dell'infallibilità papale, non a caso coincisa con la fine dello Stato pontificio:  il Papa divenne un'autorità infallibile nel momento in cui cessò di essere il Papa-re.


Fu una rivoluzione, inimmaginabile nel secolo precedente, che provocò contraccolpi immediati. Va ricordata la reazione del governo austro-ungarico, che il 30 luglio del 1870, meno di due settimane dopo l'approvazione della costituzione Pastor aeternus, denunciò unilateralmente il concordato del 1855, asserendo che questo non poteva più sussistere essendo cambiato lo status di uno dei contraenti. Oppure quella del cancelliere Otto von Bismarck, secondo il quale i rapporti fra l'impero e il papato erano stati modificati in radice dall'affermazione del centralismo romano e del potere assoluto del Pontefice, che rendeva i vescovi potenziali agenti di una potenza straniera e totalitaria. La circolare del cancelliere provocò una risposta collettiva dell'episcopato tedesco, volta a ridimensionare la portata del decreto conciliare poi confermata da Pio ix.


L'Ottocento divenne così il secolo del massimo scontro tra la Chiesa e lo Stato. Scontro ideologico (il Sillabo del 1864); scontro istituzionale a causa dell'adozione, da parte di molti governi - a partire da quello piemontese e poi italiano - di legislazioni fortemente neogiurisdizionaliste; scontro politico in conseguenza della fine del potere temporale. È importante tenere presente che la formazione di Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, si svolse in questo clima, che in diversi casi dovette apparirgli quasi da stato d'assedio. Ricordo che quando fu nominato alla sede patriarcale di Venezia l'exequatur governativo, indispensabile per prendere possesso della funzione, gli fu negato per un anno e mezzo.


È questo lo sfondo nel quale matura la necessità di una duplice riforma:  da un lato quella dell'impianto giuridico-canonistico, che sfocerà nella creazione del Codex iuris canonici, dall'altro, quella dell'organizzazione di governo, che darà vita al rifacimento della Curia. Nel primo caso si trattava di rimettere mano ad una normativa vecchia di secoli per adeguarla ai cambiamenti sopravvenuti, liquidando la stagione dei diritti locali delle chiese d'antico regime e rifondando su nuove basi statuto giuridico e posizione internazionale della Santa Sede, compromessa, benché non annullata, dalla fine del potere temporale. In questa direzione spingeva soprattutto la scuola intransigente, nella quale si stava formando Giuseppe Sarto.


Nel secondo caso era indispensabile ripensare e ricostruire dalle fondamenta il sistema di governo ecclesiastico, che nella sostanza era ancora quello architettato da Sisto V nel 1588.


Un'impresa immane, con la quale entrava in gioco niente di meno che la questione del rapporto della Chiesa con la modernità:  modernità giuridica, modernità politica, modernità istituzionale, modernità di forme di governo, modernità culturale. E sappiamo bene che nel corso dell'Ottocento la sede romana anziché avvicinare la modernità gettando ponti, l'aveva allontanata scavando fossati e alzando trincee. Nulla si fece, infatti, durante i due lunghissimi pontificati di Pio IX e di Leone XIII, che durarono, sommati insieme, ben cinquantasette anni.


Il compito cadde sulle spalle di Pio X, eletto alla cattedra di Pietro il 4 agosto del 1903.


Giuseppe Sarto (1835-1914) era una figura decisamente anomala rispetto ai canoni ecclesiastici del tempo (...) Era nato austriaco. Il suo cursus honorum si era svolto tutto in periferia, nella pastorale di base:  cappellano e poi parroco in piccoli paesi del Veneto, cancelliere di curia e direttore spirituale del seminario di Treviso, vescovo a Mantova, patriarca e cardinale a Venezia. Roma, città nella quale si era recato per la prima volta nel 1877, per incredibile che possa sembrare, cioè a quarantadue anni, era rimasta completamente estranea al suo processo formativo. È dunque nella concreta amministrazione ecclesiastica locale, nel quotidiano lavoro pastorale accanto alla povera gente - non negli uffici del governo centrale - che Sarto maturò la convinzione della necessità di un profondo rinnovamento della Chiesa, a partire dalla sua fondazione giuridico-canonistica.


Questa convinzione fu rafforzata dall'episodio del veto imperiale, che, come è noto, sbarrò la strada del papato al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro e la schiuse al patriarca di Venezia. Gli storici sono dell'idea che il segretario di Stato di Leone xiii non sarebbe giunto comunque alla tiara, essendo figura troppo esposta politicamente. Ma è certo che il veto austriaco, portato in conclave dall'arcivescovo di Cracovia cardinale Jan Maurycy Pawel Puzyna de Kosielsko - oggi sepolto con tutti gli onori in quel sacrario nazionale polacco che è la cattedrale sulla collina di Wawel - rafforzò in maniera definitiva la convinzione del Sarto che fossero necessari interventi rapidi e radicali per sottrarre l'istituzione ecclesiastica dall'assedio politico delle grandi potenze.


L'azione di Pio X fu immediata e cominciò proprio dal diritto di veto, soppresso con la costituzione Commissum nobis del 20 gennaio 1904 - ma resa pubblica, in considerazione delle temute implicazioni internazionali, solo nel 1909 - che il cardinale Pietro Gasparri definirà "fatto memorando", sufficiente a ritagliare un posto nella storia a chi l'aveva voluto e con la riforma del conclave, varata alla fine dell'anno - costituzione Vacante sede apostolica del 25 novembre 1904 - che imponeva l'obbligo del segreto più assoluto a tutti i partecipanti. Entrambi i documenti confluiranno nel Codex del 1917. Con ciò si alzava un'invalicabile barriera protettiva attorno ai cardinali e si riduceva l'elezione del Papa a fatto di esclusiva pertinenza ecclesiastica.


Non deve sfuggire la conseguenza epocale della soppressione dello ius exclusivae, che spiega il giudizio di Gasparri:  in nome del bene superiore rappresentato dalla libertas Ecclesiae il Papa nato austriaco e ancora legato alla casa d'Austria infliggeva il colpo definitivo alla figura storica dello Stato confessionale, titolare di tale diritto.


Ma l'atto rivoluzionario, destinato a cambiare l'autopercezione della Chiesa e il suo rapporto con il mondo, fu il motu proprio Arduum sane munus (19 marzo 1904), con il quale si annunciava l'avvio della codificazione del diritto canonico. Su questa opera, finora mal compresa o sottovalutata dalla storiografia, possediamo ora l'amplissimo studio di Carlo Fantappiè, che ne ha illustrato in forma del tutto convincente la portata epocale, al quale rinvio e sul quale tornerò prima di concludere.


Il lavoro preparatorio, che comportò una mobilitazione senza precedenti dell'episcopato mondiale, delle università, dei seminari, degli istituti religiosi, degli studiosi, durò 13 anni (...) La consultazione fu talmente ampia e profonda da poter essere paragonata ad un'assise conciliare.


Nelle risposte e proposte che giunsero a Roma vi furono molte osservazioni riguardanti il cattivo funzionamento della Curia, di cui si lamentavano le competenze non definite e mal distribuite, la cattiva ripartizione del carico di lavoro, l'eccesso delle tasse, quae nunc odiosae sunt, l'abbondanza delle ferie che bloccavano spesso il lavoro, la richiesta di una maggiore internazionalizzazione del personale addetto.


A questo punto pare sia intervenuto personalmente Pio X, che impose di scorporare la riforma della Curia dai lavori del Codex e di porla in corsia preferenziale, come diremmo oggi. È noto che Pio X non aveva un alto concetto del funzionamento del governo centrale ecclesiastico. Il suo giudizio emerge da numerosi episodi della sua biografia nonché dalla sua scelta di operare valendosi largamente della sua segreteria privata - la ben nota "segreteriola" - più che degli organi curiali. Ma emerge soprattutto dal lungo promemoria manoscritto che diede ai consultori come istruzione di lavoro, un documento lucido fino ad essere spietato, nel quale emerge la sua sensibilità di uomo della periferia, senza legami, che si sentiva libero di cambiare, demolire, rifare.


"1. Alcune Congregazioni - scrive Pio X - non hanno ragione di esistere, mentre altre sono sopracariche di lavoro; 2. Alcuni uffici hanno un personale esuberante, altri invece deficiente; 3. Le retribuzioni per alcuni uffici sono troppo pingui, per altri nulle o irrisorie; 4. Le tasse sono varie, spesso arbitrarie e non sempre in tutto ragionevoli". Sul piano formale la situazione era ancora peggiore:  "1. Mentre le Congregazioni sono tribunali supremi non dovrebbero, come tali, trattare quelle cause in cui è necessario un processo giudiziario. Invece le Sacre Congregazioni agiscono spesso come tribunali inquirenti e di prima istanza; 2. La medesima materia è trattata da più Congregazioni, cosicché l'interessato può rivolgersi a suo arbitrio a quella che, fatti i calcoli, più gli conviene", oppure "viene trattata a tozzi e bocconi da parecchi". Inoltre sono diversi i criteri di giudizio e le tasse. Questo sistema "disordinato, vario ed anche arbitrario" provoca "critiche punto decorose pel governo della S. Sede".


Tutto ciò premesso, il Papa indicò come la riforma avrebbe dovuto suddividere competenze e attribuzioni delle diverse congregazioni, entrando quindi nel dettaglio di ciò che si doveva fare. Tralascio di riferire le indicazioni specifiche, tranne che per la Rota, che egli ridisegnò con le parole che seguono:  "Si deve dar vita alla S. Rota, riformandone il vecchio sistema di procedura. I giudizi si ripartiranno in civili, criminali e matrimoniali. La S. Rota avrà ordinaria giurisdizione su tutte le cause d'appello delle Curie Metropolitane o Vescovili, e sulle altre, che le saranno commesse da ciascuna Congregazione, nei limiti delle rispettive competenze. Gli Uditori di Rota avranno seduta due volte per settimana e le loro sentenze saranno definitive". L'eventuale diritto di appello era riservato a "casi gravi ed eccezionali, previa la concessione pontificia". La nota papale entrava anche nella composizione, prevedendo "dieci Prelati, con i necessari impiegati". Infine, solo alla Rota, data la natura delle materie in discussione, erano "ammessi gli Avvocati", esclusi invece, tassativamente, dalle altre congregazioni.


Fu dunque il Papa in persona a ripensare la funzione della Rota, tribunale civile nella fase terminale dello Stato pontificio, che dopo il 1870, venuto meno il potere temporale, siluit, cioè tacque.


Bisogna aggiungere che Pio X, abituato a subire dalla periferia del mondo cattolico le lungaggini romane, aggiunse che la "la riforma deve farsi "subito" - sottolineato nel testo - per essere messa in esecuzione al più presto in via di esperimento, onde, colle eventuali mutazioni, che saranno suggerite dalla pratica, venga definitivamente pubblicata nel nuovo Codice". Poi tornò sulla necessità di distinguere le competenze amministrative da quelle giudiziarie:  "Dovendosi riordinare le Congregazioni e migliorarne l'organismo, è necessario riportarle alla loro primitiva natura di collegi amministrativi, e quindi spogliarle della parte giudiziale, contenziosa, per la quale assunsero anche la funzione di Tribunali". E aggiungeva, con il buon senso di chi guardava al diritto da utente e non da professionista:  "Con ciò saranno liberate da un grande lavoro, che impedisce e ritarda la trattazione di affari più importanti, e poste al di sopra dei privati litiganti". Per questo "converrà richiamare in vita il tribunale della S. Rota Romana e a questo rimettere per commissione tutte le cause".


Con il senso pratico e la correttezza amministrativa di cui aveva dato prova fin da quando era parroco nel paese di Salzano, dove era solito affiggere alla porta della chiesa il bilancio della parrocchia, prescriveva inoltre che "gli Ufficiali di ciascun Dicastero avranno uno stipendio fisso dalla sola cassa della S. Sede, alla quale ogni mese saranno consegnate tutte le tasse dei Rescritti, delle Dispense, delle Lettere Apostoliche, dei Benefici, dei Brevi e delle Canonizzazioni dei Santi, che saranno razionalmente stabilite". La procedura delle Congregazioni, "liberate della parte giudiziale contenziosa", doveva essere segreta. Prescrive infatti il Pontefice:  "Il giuramento da emettersi da tutti gli ufficiali comprende l'obbligo di osservare il più rigoroso segreto e di non ricevere doni etiam sponte oblata come esiste nel S. Uffizio e sotto le medesime pene".


La riforma, portata avanti nella forma più discreta, silenziosa, fu realizzata in un anno, cioè in tempi insolitamente rapidi. La costituzione Sapienti consilio che la sanzionò, della quale ricordiamo il centesimo compleanno, è infatti del 29 giugno 1908. I criteri ispiratori, che mi sembra non abbiano perduto di attualità, possono così sintetizzarsi: 


Una chiara suddivisione delle competenze, che poneva fine a incertezze e confusioni, distribuite fra undici Congregazioni (Sant'Uffizio, Concistoriale, Sacramenti, Concilio, Religiosi, Propaganda Fide, Indice, Riti, Cerimoniale, Affari Ecclesiastici Straordinari, Studi), tre tribunali (Penitenzieria, Sacra Romana Rota, Segnatura), cinque uffici (Cancelleria, Dataria, Camera, Segreteria di Stato, Segreteria dei brevi e delle lettere latine). Al vertice della piramide il Sant'Uffizio, che già allora si era pensato di indicare con l'attuale denominazione, De tuenda fide, idea poi scartata. È l'unica congregazione presieduta direttamente dal Papa - cui Summus Pontifex praeest, si dice nella Sapienti consilio - caratteristica che conserverà fino alla riforma di Paolo vi. La pratica, come aveva previsto Pio X, suggerirà al suo successore alcuni aggiustamenti:  la soppressione dell'Indice, incluso nelle competenze del Sant'Uffizio - ma l'indicazione era già contenuta nel progetto originario di Sarto - lo scorporo da Propaganda Fide delle Chiese Orientali, affidate ad una congregazione autonoma, come la vigilanza sui seminari, sottratta alla Concistoriale - anche in questo caso con ritorno all'originario progetto di Pio X - e attribuita ad una Congregazione autonoma.


Una radicale separazione delle competenze amministrative da quelle giudiziarie, assegnate ai tre tribunali:  la Penitenzieria, rigorosamente delimitata al foro interno; la Segnatura, come ultima istanza giurisdizionale; la Rota - Sacra Romana Rota, come viene indicata nella costituzione pontificia - alla cui competenza vengono attribuite tutte le cause contenziose. I regolamenti successivamente emanati, nel 1910 e nel 1912 - dovuti al primo decano della Rota, Michele Lega, uno dei canonisti più influenti, decisamente orientato verso la modernizzazione codicistica del diritto canonico - confluiranno nel iv libro del Codex del 1917. È da notare che inizialmente la materia sottoposta al giudizio della Rota non riguardava soltanto cause di nullità matrimoniale. Nel 1913, su cinquantaquattro sentenze rotali, solo ventidue si riferivano a questo argomento. Fu il concordato del 1929 che ne provocò un decisivo incremento. Nel 1950 ben 148 sentenze, su un totale di 153, riguardavano questo tema.


Una decisa opera di modernizzazione dell'apparato di governo ecclesiastico, che faceva propri i criteri e i canoni operativi statali. Non a caso nei lavori preparatori alla riforma della Curia si era presa in considerazione la possibilità di abbandonare le antiche denominazioni per indicare i vari officia della curia con l'espressione moderna di "Ministeri".


Gli anni del pontificato di Pio X sono stati visti dalla storiografia prevalentemente in riferimento alla condanna del modernismo, e conseguentemente sono stati gravati da un giudizio negativo, come una stagione di arresto, di regresso, di reazione conservatrice. Nel clima diffuso di "antocostituzionalismo postconciliare, come è stato definito, si è prestata scarsissima attenzione al significato, alla portata e alle conseguenze che hanno avuto la scelta della codificazione del diritto canonico e le riforme che ne fecero da corollario, a partire da quella della Curia romana, benché si debba ricordare che la loro importanza capitale non era sfuggita ai maggiori giuristi del tempo, da Francesco Ruffini a Vittorio Emanuele Orlando. Ma dopo la pubblicazione del già ricordato studio di Fantappiè sulla codificazione pio-benedettina non è più possibile continuare a seguire supinamente queste vecchie categorie interpretative. Infatti, la spinta modernizzatrice che derivò alla Chiesa romana dalle riforme di inizio secolo, modellate sulle strutture giuridiche e amministrative dello stato postrivoluzionario, fu enorme. Grazie ad esse la Santa Sede tagliò tutti i legami con l'antico regime; semplificò, unificò e universalizzò la propria normativa interna, ricostruendola attorno al primato di giurisdizione della sede papale; riacquisì un sicuro statuto internazionale; tornò a presentarsi di fronte agli Stati come un interlocutore alla pari, mentre si profilavano all'orizzonte la stagione dei totalitarismi e l'era della globalizzazione. Queste innovazioni divennero l'asse di equilibrio della Chiesa novecentesca e la riproposero con energia come istituzione pubblica e non privata, attrezzata in vista della stagione concordataria di Pio XI.


Repressione e riforma rappresentano dunque le due facce, non contrapposte ma complementari, di questo pontificato decisivo per le sorti del cattolicesimo contemporaneo, sul quale il magistero ecclesiastico e la storiografia forniscono valutazioni nettamente divergenti.






(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2008)


Nessun commento: