venerdì 28 novembre 2008

Libro "Oltre la gloria" di David Margolick

Un volume tra reportage e racconto su un incontro di pugilato destinato a segnare un'epoca

E il mito della razza
andò al tappeto


di Gaetano Vallini

"Il declino della potenza nazista ebbe inizio con un gancio sinistro di un autista senza alcuna nozione di politica estera". Detta così sembra un'affermazione decisamente improbabile. Eppure ha un suo fondo di verità. Se non altro quanto accadde la sera del 22 giugno 1938 nello Yankee Stadium di New York - il gancio sinistro con il quale il pugile nero Joe Louis mandò per la terza e definitiva volta al tappeto il tedesco Max Schmeling dopo appena due minuti e quattro secondi di match - fu una sorta di presagio di quanto sarebbe tragicamente accaduto in seguito.
Ad affermarlo è lo scrittore e giornalista David Margolick in Oltre la gloria (Milano, il Saggiatore, 2008, pagine 432, euro 23), un interessante libro a metà strada tra il reportage e il racconto nel quale ricostruisce dettagliatamente la genesi, lo svolgersi e le conseguenze di quell'epico incontro di pugilato combattuto sullo sfondo di un mondo che stava precipitando nel baratro di un'altra guerra mondiale. Un match che agli occhi dell'opinione pubblica mondiale non si presentò solo come un combattimento per il titolo mondiale dei pesi massimi e come la rivincita tra due indiscussi campioni (Louis era stato sconfitto nel 1936): su quel ring si scontravano un nero e un bianco, un americano e un tedesco, il riscatto degli afroamericani e la supposta superiorità della razza ariana.
Un peso davvero eccessivo sulle spalle di due soli uomini, che comunque non esitarono a portarlo, consci di quali sarebbero state le conseguenze in caso di sconfitta. Louis, chiamato il brown bomber, il "bombardiere nero", incarnava la democrazia e realizzava il sogno di tanti suoi simili d'ottenere sul ring una vendetta impunita nei confronti dei bianchi e di dare un colpo alle teorie razziste di stampo nazista. Tre settimane prima dell'incontro Louis era stato ricevuto dal presidente Roosevelt il quale, secondo quanto riportato dal "New York Times", gli avrebbe detto: "Joe, abbiamo bisogno dei tuoi pugni per battere la Germania". E lo stesso pugile scrisse più tardi nella sua autobiografia: "Avevo le mie ragioni per vincere contro Max, ma sapevo che un intero Paese contava su di me".
Schmeling, per contro, si identificava con il prototipo di boxeur-soldato decantato da Hitler nel Mein Kampf. Era, quindi, uno strumento della propaganda nazista che lo proponeva quale paladino della purezza della razza. Il pugilato, del resto, era esaltato dal Führer che, nella cultura ricreativa del Reich, lo poneva al primo posto tra gli sport per coraggio, risolutezza, velocità di calcolo e sangue freddo. Inoltre la Germania veniva dal trionfo dell'olimpiade di Berlino del 1936; trionfo appena "macchiato" dalle vittorie del "negro" Jesse Owens. Il giorno del match il pugile ricevette un cablogramma di Hitler che pareva non contemplare l'ipotesi della sconfitta: "Al futuro campione del mondo, Max Schmeling. Auguri di ogni successo".
Riassumendo la portata dell'evento, un cronista sportivo di Boston quella mattina aveva scritto: "Louis rappresenta la democrazia nella sua forma più pura: il ragazzo nero al quale è stato permesso di diventare campione del mondo a prescindere dalla razza, dalla religione o dal colore. Schmeling rappresenta una nazione che non riconosce questa idea né questo ideale". Entrambi - issati come vessilli delle rispettive nazioni e dei valori che queste propugnavano - sapevano che gli occhi del mondo erano puntati su di loro.
Fin dal mattino di quella giornata storica a Berlino, Londra, Tokyo, Johannesburg, Mosca e Roma tutti i giornali avevano riservato ampio spazio all'incontro. Era il primo evento mediatico mondiale: quella sera ai 70.000 paganti dello Yankee Stadium si sarebbero aggiunti oltre 100 milioni di persone che avrebbero seguito l'incontro alla radio in tutti i continenti: 60 milioni negli Stati Uniti, altri 20 milioni in Germania nonostante fossero le 3 del mattino.
I due pugili arrivarono all'appuntamento con la storia con percorsi diversi. Max Otto Adolph Siegfried Schmeling era nato a Luchow nel 1905, soprannominato l'"ulano nero del Reno", aveva conquistato il titolo mondiale dei pesi massimi nel 1930 contro Jack Sharkey. Ma mantenne la corona appena due incontri. A sottrargliela fu lo stesso Sharkey due anni più tardi. Il 19 giugno 1936 il suo nome tornò in prima pagina proprio grazie alla vittoria contro Louis, allora appena ventiduenne ma dato per favorito dagli allibratori.
Nato in Alabama ma cresciuto a Detroit, il giovane Joe fu segnato da quella sconfitta. Fin da subito il suo obiettivo, oltre alla conquista del titolo, fu la rivincita. Il primo obiettivo lo raggiunse nel 1937 - primo nero dopo Jack Johnson a conquistare il titolo dei pesi massimi - vincendo a Chicago contro James "Cinderella Man" Braddock. Ma ai giornalisti, dopo la vittoria, Louis confessò: "Campione? Non mi sentirò davvero campione finché non avrò messo al tappeto Schmeling".
Il giorno della rivincita alla fine arrivò. Schmeling aveva 32 anni e pesava 87,500 chili, Louis 24 anni e 90,100 chili di peso: l'esperienza contro la spregiudicatezza della gioventù. Ma ci fu ben poco da vedere. Joe tenne fede alla promessa: "Questa volta lo sistemo in fretta", aveva detto. E così al suono della campanella del primo round l'americano si lanciò sull'avversario tempestandolo di terrificanti colpi. Schmeling finì al tappeto due volte e alla terza l'arbitro Art Donovan decretò la fine dell'incontro dopo appena 124 secondi. Per il tedesco fu una sconfitta umiliante, che tra l'altro gli costò un ricovero in ospedale per la rottura di alcune costole.
Gli statunitensi - i neri soprattutto - festeggiarono; i tedeschi ingoiarono l'amaro boccone. Un boccone che per Hitler fu difficile da digerire. E quando Schmeling cominciò a insistere per un terzo incontro, intervenne di persona per evitare un'altra umiliante sconfitta: troppo grande era parso il divario tra i due pugili per rischiare un'altra figuraccia. E comunque poco più tardi di un anno dopo sarebbe scoppiata la guerra e non ci sarebbe stato più tempo per i giochi. Tuttavia, sia pure con minore entusiasmo, la propaganda continuò a usare Schmeling proponendolo ancora come modello di comportamento ai ragazzi tedeschi. Ma, come annota Margolick, "Schmeling non avrebbe certo continuato a godere del favore ufficiale, se le autorità avessero saputo che nella notte del 9 novembre 1938 - la Notte dei cristalli, quando in tutta la Germania i nazisti distrussero i negozi e le sinagoghe degli ebrei e ne mandarono a migliaia nei campi di concentramento - lui andò a prendere due adolescenti ebrei, figli di un vecchio amico, li portò al suo albergo di Berlino, nella sua suite, e li tenne lì al sicuro per diversi giorni, fino a quando il peggio non fu passato". Mentre come personaggio pubblico appariva inconsapevole dell'importanza simbolica di quello che faceva - o comunque provava a barcamenarsi dinanzi all'opinione pubblica cercando di compensare la vicinanza al regime con gesti inconsueti, come la scelta di un manager ebreo in America - "come privato cittadino era capace di atti di coraggio e di pietà nei confronti di singoli individui, atti che per la loro stessa natura rimasero ignoti. (...) E sebbene sia difficile trovare altri esempi specifici, pare che il suo appoggio alle vittime della persecuzione nazista si sia intensificato con l'inasprirsi delle atrocità di Hitler".
Negli anni del conflitto entrambi i pugili finirono arruolati nei rispettivi eserciti, più come icone che come soldati. Al termine delle ostilità l'eco del loro storico incontro era svanita. La storia aveva fatto il suo corso e pronunciato il suo verdetto, peraltro preconizzato da quel gancio sinistro. Louis, che aveva difeso il titolo 21 volte ed era entrato nell'olimpo del pugilato, riprese a combattere, ma ormai era sul viale del tramonto. La salute lo tradì, così come alcuni investimenti azzardati e trascorse gli ultimi anni di vita in miseria. Morì il 12 aprile 1981 per un attacco di cuore: aveva sessantasei anni.
Al contrario, anche se all'epoca sarebbe stato difficile immaginarlo, la sera del 22 giugno 1938 Schmeling si tirò su da quel tappeto. E mentre la stella di Louis si spegneva, la sua diventava sempre più luminosa. La nuova Germania, assetata di eroi, lo pose subito nel suo pantheon. A suo favore giocò il fatto che non fosse mai stato iscritto al partito nazista. Dopo la guerra provò a risalire sul ring e a riabilitarsi anche negli Stati Uniti. La prima cosa non riuscì, era troppo vecchio; la seconda sì, anche se con fatica. Ma soprattutto cercò di incontrare ancora il suo rivale, a cui si sentiva molto legato e con il quale voleva chiarire le cose. E quando si trovarono finalmente faccia a faccia, nel 1954, cercò di spiegargli che non era mai stato il mostro nazista dipinto dagli altri. Ma Louis lo interruppe subito: "Non c'è niente da spiegare, Max. Noi due siamo amici. Il resto è acqua passata".
"Il suo trionfo con Louis - conclude Margolick - aveva costituito il culmine della sua carriera. La sua sconfitta da parte del brown bomber gli aveva risparmiato un'infamia maggiore e lo aveva reso immortale. Louis rappresentava la sua giovinezza, e anche il suo legame con l'America, la nazione che aveva sempre amato, fosse solo alla sua maniera opportunistica. E soprattutto, fu Louis a fornire a Schmeling ciò che più desiderava: un'espiazione".



(©L'Osservatore Romano - 28 novembre 20008)

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